Musei in 5 opere:
Galleria Sabauda Torino
by Cristian Camanzi
by Cristian Camanzi
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Oggi siamo in Italia, più precisamente a Torino all’interno della Galleria Sabauda. La galleria comprende sculture e oggetti delle arti applicate, ma la parte essenziale è l’esposizione di dipinti di antichi maestri, una delle più varie in Italia, con esempi di tutte le scuole maggiori. Predomina numericamente la scuola italiana ma vi sono anche belle rappresentanze dei primi neerlandesi, di olandesi e di fiamminghi.
Ecco 5 cose da non perdere, se visitate la Galleria Sabauda di Torino
Tommaso Francesco di Savoia, principe di Carignano, commissionò due ritratti a van Dyck nel 1634: uno a mezzo busto, che fu poi regalato ai sovrani d’Inghilterra, e questo ritratto equestre. In questo periodo, il principe si trovava all’apice della sua carriera come condottiero militare: era al servizio del re di Spagna Filippo II, che lo aveva nominato reggente dei Paesi Bassi del Sud. Per questo ritratto, van Dyck si rifà alla grande tradizione di ritratti equestri, dove il cavallo si sta impennando, a simboleggiare la capacità del principe a reggere le redini del comando anche in momenti difficili. Tommaso Francesco è rappresentato con il bastone di generale e con le insegne e il nastro rosso dell’Ordine dell’Annunziata, conferitegli dal padre, Carlo Emanuele I di Savoia nel 1616.
Il dipinto mostra i tre arcangeli ciascuno con un tipico attributo oppure, nel caso di Raffaele al centro, con un episodio della propria storia. Michele ha infatti la spada e un piccolo globo con una croce (simbolo della Terra) in mano; Raffaele tiene per mano Tobiolo, che accompagnò in un prodigioso viaggio con anche il cagnolino (in basso) in cui il ragazzo prese un pesce (che tiene in mano) per guarire il proprio padre malato; Gabriele infine tiene in mano il giglio bianco che offrì alla Madonna durante l’annunciazione.
I tre angeli hanno forme allungate e un disegno sinuoso e delicato che ricorda le opere di Botticelli, maestro di Filippino. Le vaporose vesti svolazzanti sono infatti tipiche della produzione artistica di Firenze in quegli anni, usate anche da Ghirlandaio e altri. La fisionomia degli angeli ricorda anche il volto del liberatore di san Pietro nell’affresco di Filippino alla cappella Brancacci, databile a quegli stessi anni.
Il dolce paesaggio che fa da sfondo, con il limpido cielo azzurrino, non sfuma ancora verso l’orizzonte, come imporrà di lì a poco l’esempio di Leonardo da Vinci.
La tavola, che presenta una grave lacuna nella parte superiore a sinistra, è un esempio del tardo stile del maestro. Al centro si trova la Madonna col Bambino, che sta in piedi torreggiando sulle sue ginocchia. Appoggiato in basso si vede san Giovannino con la tipica pelle da eremita nel deserto, il bastone con la croce e il cartiglio dove solitamente sta scritto “Ecce Agnus Dei…” Madre e figlio non si guardano, ma il loro legame è simboleggiato dai teneri gesti con cui si abbracciano. Il volto pensieroso e malinconico della Vergine è dovuto alla sua prefigurazione della Passione.
Degli altri santi presenti solo alcuni sono riconoscibili da attributi: a destra si vede chiaramente santa Caterina d’Alessandria con la ruota dentata, suo tipico attributo, seguita da una santa anziana, forse Anna e Gioacchino o santa Elisabetta, e un santo (san Giuseppe?). Dall’altro lato si vedono una santa, forse Maria Maddalena la cui presenza anticipa la Passione di Cristo, e un santo con libro, forse l’evangelista Giovanni.
Le figure si trovano tutte in primo piano e si accalcano occupando tutto lo spazio pittorico, secondo un’iconografia che facilitava la comprensione del fedele e quindi l’uso devozionale.
La scena è organizzata su un ritmo pacato, con colori brillanti amplificati dal cielo azzurrino dello sfondo.
L’opera mostra una Madonna seria e severa in trono, con la testa leggermente piegata di lato (a tre quarti) e con un Bambino in piedi. Dietro il trono si vedono due angeli su piccola scala. Il trono ha un’architettura semplice con qualche decorazione, ma non ha nessuna delle caratteristiche gotiche o degli intarsi marmorei evidenti nelle Maestà successive dell’artista.
L’opera ricorda la Maestà del Louvre di Cimabue o ancor di più la contemporanea Maestà di Santa Maria dei Servi di Bologna, attribuita ancora a Cimabue o alla sua bottega. Sono molti gli aspetti di questa tavola che richiamano alla mente il pittore fiorentino, dalla resa del panneggio del Bambino alle caratteristiche somatiche dei personaggi, dalla prospettiva inversa del trono all’uso dei chiaroscuri. Lo stile di Cimabue e Duccio furono assai diversi, così come diversi furono i loro conseguimenti nella pittura. Ma questa difformità di stile, che sarà evidente più avanti con le opere della maturità, è pressoché inesistente in questi anni. Questo ha fatto presupporre che ci fosse un fitto rapporto di maestro-allievo tra il più anziano Cimabue e il più giovane Duccio.
Si tratta di un’opera giovanile del grande maestro fiammingo, dove si nota già una rielaborazione degli stimoli ricevuti da Robert Campin e Jan van Eyck. Il pannello centrale è conservato al Louvre, i due laterali sono invece a Torino alla Galleria Sabauda.
Grazie alla tecnica delle velature a olio, van der Weyden poté usare una luce limpida e brillante, che svela dettagli con estrema precisione, quali ad esempio il lustro degli oggetti metallici come il lampadario, la brocca col bacile, il medaglione appeso sul letto. I dettagli comunque sono disposti in modo da non interferire con la scena principale. La linea dell’orizzonte, come tipico nelle opere della pittura fiamminga, è rialzata e crea un effetto di sensazione avvolgente nello spettatore, come se fosse risucchiato nella scena.
I pannelli laterali hanno caratteristiche simili, ma sono ambientati in un luminoso paesaggio, dove gli elementi più lontani sfumano per via della foschia, secondo le regole della prospettiva aerea. Si presume che la pala si trovasse a Chieri nella chiesa di San Domenico, nella cappella della famiglia Villa, committente dell’opera.