Le istituzioni museali
nel “dopo pandemia”
by Cristian Camanzi
by Cristian Camanzi
Gli ultimi due anni sono stati devastanti per il mondo della cultura e, quindi, anche per quanto riguarda le istituzioni culturali. I musei si sono dovuti e si stanno inventando strategie e modi per affrontare questa crisi generale che stenta a rientrare. Mentre la pandemia di Corona infuriava in tutto il mondo, le istituzioni culturali sono state costrette a chiudere le loro porte per prevenire l’ulteriore diffusione del virus. È stato un momento difficile che ha costretto molte istituzioni che ancora non lo avevano fatto ad aprirsi al web e ai social, forse nella speranza di non essere dimenticati. Ovviamente, come noi di ARTernative sappiamo bene, non è sufficiente aprire un profilo social o un portale web per poter dire “d’esserci”, anzi, a volte il risultato poco professionale si ritorce contro l’istituzione stessa. Ad ogni modo anche sotto questo aspetto, il virus ha accelerato e scombussolato alcuni meccanismi che già erano in atto: un processo, lento in Italia, di apertura delle istituzioni museali nei confronti dell’online, del web.
E ora, come stanno le cose? In tutti il mondo molti musei hanno riaperto appena possibile, altri sono rimasti chiusi fino a quando le restrizioni non si sono ulteriormente allentate. Anche se i musei riaperti hanno preso misure precauzionali e delineato una serie rigorosa di azioni di distanziamento per mantenere i visitatori al sicuro, le persone non si sono affrettate a tornare nei propri musei preferiti. I musei hanno sperimentato un calo devastante nel numero di visitatori e nelle entrate nel corso del 2020 e del 2021. Per pagare le bollette e gli stipendi del personale alcuni musei stranieri sono ricorsi a una delle azioni più drastiche e controverse: la vendita delle opere d’arte. L’Associazione dei direttori dei musei d’arte negli Stati Uniti ha allentato le sue linee guida sulla vendita di opere d’arte delle collezioni. Mentre prima la vendita era permessa solo per finanziare future acquisizioni, ora si è stabilito che i fondi sono un mezzo per far fronte alla crisi economica e pagare anche gli stipendi dei membri dello staff.
Poco dopo questa decisione che risale al 2020, il Baltimore Museum of Art ha annunciato che avrebbe venduto tre opere della sua collezione. Opere di Brice Marden, Clyfford Still e Andy Warhol, vendute attraverso Sotheby’s nella speranza di raccogliere 65 milioni di dollari. Il denaro non sarebbe stato speso solo per gli stipendi, ma anche per creare un fondo cassa e abbassare i prezzi d’ingresso. Molti musei in difficoltà seguirono il Baltimore Museum of Art con proposte simili. Le reazioni del pubblico, dei donatori, degli sponsor e degli ex membri dell’Associazione dei direttori dei musei d’arte sulla scelta delle opere, l’insufficiente trasparenza e i presunti potenziali conflitti d’interesse furono così forti che il Museo di Baltimora annullò la vendita delle opere. Le possibili aste da parte di altri musei per raccogliere fondi è diventata di conseguenza incerta. Si è aperto un interessante dibattito, ancora oggi in corso. In quali circostanze i musei sono autorizzati a vendere pezzi della loro collezione? Che tipo di opere sono ammissibili per questo tipo di operazione? A chi spetta la decisione? E ci dovrebbero essere regole o limitazioni sulla destinazione dei fondi?
È lecito che un museo utilizzi queste operazioni e questi fondi per attivare azioni di ammodernamento, investire sul personale, sui propri strumenti di comunicazione e di presenza sul web? L’epoca difficile che stiamo attraversando ha posto molti quesiti di questo genere. Proprio perché i soldi e i fondi su cui potevano contare le istituzioni museali sono venuti a calare drasticamente o a mancare del tutto. Oggi, per quanto riguarda il nostro paese, stiamo attendendo segnali e risultati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Si tratta del piano approvato nel 2021 dall’Italia per rilanciarne l’economia dopo la pandemia di COVID-19, al fine di permettere lo sviluppo verde e digitale del Paese. Una grossa fetta di questi fondi riguarda proprio la digitalizzazione, l’innovazione, la competitività, la cultura e il turismo.