Arte e cinema:
Volevo nascondermi
di Dora Ghidelli e Dario Lauritano
di Dora Ghidelli e Dario Lauritano
Nonostante il premio vinto dall’impressionante Elio Germano alla Berlinale 2020, purtroppo “Volevo Nascondermi” ha avuto la sfortuna di uscire nelle sale durante l’esplosione dell’emergenza Coronavirus in Italia e in Europa, evento che ha influito negativamente sulla distribuzione del film. Un vero peccato visto che ci troviamo davanti ad un’opera degna di nota e che tratta di un artista che, nonostante la non poca fama raggiunta, merita certamente più attenzione da parte del grande pubblico. Il film è appunto un’opera biografica sulla vita di Antonio Ligabue, pittore italo-svizzero vissuto agli inizi del 900. Artista noto soprattutto per i suoi quadri raffiguranti animali (le sue tigri sono ben impresse nell’immaginario collettivo) e la natura selvaggia da lui tanto amata, si conosce tuttavia ben poco riguardo la sua vita privata e ciò che ha ispirato la sua arte così viva e incisiva.
Il film inizia col raccontare l’infanzia travagliata del pittore vissuta in Svizzera tra famiglie adottive che non lo comprendono a causa della sua malattia (aveva il gozzo ed era rachitico) e i manicomi, luoghi decisamente inadatti a curare la sua condizione, non essendo egli affetto da disturbi psichiatrici.
Cresciuto, Ligabue ricorda i suoi genitori biologici, scopre le atrocità compiute dal padre, accusato di aver ucciso la moglie e i figli, e decide di cambiare il suo cognome da Laccabue in Ligabue.
Antonio si ritrova così in Italia, in Emilia, la terra natia dell’odiato genitore. Non compreso a causa della lingua straniera e per le sue stranezze, inizia a vivere come un animale nelle terre vicine al Po. Immerso nella natura riesce finalmente a trovare il primo spiraglio di pace, nonostante debba vivere come un bruto, patendo il freddo e la fame. Ed ecco finalmente una reale svolta: l’artista di Gualtieri, Marino Mazzacurati, benestante e di animo buono, decide di accoglierlo nella sua casa ed è proprio lì che Ligabue riesce a dar sfogo alla sua vena creativa, a riversare tutto il suo stupore, la sua curiosità e voglia di esplorare la natura attraverso pennellate decise e colori sgargianti.
La fotografia assume colori decisi, affresca paesaggi luminosi, vivi. La regia segue il protagonista alternando piani larghi e di ampio respiro, risaltando anche i paesaggi in cui Ligabue è immerso, a momenti in cui la camera è vicina alle pennellate dell’artista, quasi a voler entrare nei suoi quadri. Allo stesso modo è spesso vicina all’attore e totalmente immersa nell’azione: Ligabue nella pace della sua nuova dimora ha modo di studiare da vicino i soggetti che ama rappresentare, gli animali (memorabile la sequenza in cui interagisce con un tacchino per poterlo poi imprimere su tela, intrattenendo al tempo stesso i bambini del paese spettatori imprevisti del suo buffo numero). Proviamo empatia per quello strambo pittore che parla un dialetto emiliano con un accento tedesco, quasi una lingua a sé, di un altro pianeta. Capiamo il suo animo puro e fragile quando viene distrutto dalla morte di una bambina, così come il suo dolore, il suo risentimento quando sente di non essere apprezzato come vorrebbe. Ligabue infatti è ben consapevole del suo valore e del suo immenso talento.
Soffriamo con lui quando inizia ad entrare ed uscire dai manicomi italiani e gioiamo quando, nonostante i suoi trascorsi, riesce ad essere notato da critici d’arte e persino da un regista, incuriosito dalle storie che girano su di lui ormai in tutta l’Italia fascista. Gli vengono commissionati dei nuovi quadri che vengono esposti a Roma e tramite il suo successo Ligabue sente di poter ambire a di più. Da bimbo incompreso a causa delle sue stranezze, perseguitato dai demoni che cerca di scacciare tramite l’autolesionismo, a ragazzo che vive allo stato brado, a pazzo incapace di gestire le proprie emozioni, finalmente avviene la metamorfosi: Ligabue, l’artista, l’uomo.
Compra cappotti anche ad Agosto, perché sa cosa vuol dire patire il freddo. Non riesce a non fare beneficenza, a non amare le persone pure come lui. Ligabue vuole essere amato, vuole conquistare una donna, vuole dipingere solo per lei. E poi, proprio quando finalmente la metamorfosi si stava compiendo, la morte se lo porta via.
Antonio Ligabue non è svanito con la sua morte: l’arte e la sua vita straordinaria sono ancora qui, nel presente, pronte per essere raccontate, ancora una volta. Tutto questo è stato possibile grazie alla regia equilibrata, alla colonna sonora (la cui maggior enfasi avviene nelle sequenze oniriche, d’ausilio allo spettatore per entrare nella mente dell’artista e comprendere i suoi desideri) e soprattutto all’interpretazione magnifica di Elio Germano, che riesce a scomparire completamente nel suo personaggio per riportarlo in vita: crediamo ad ogni suo gesto, espressione facciale, alle sue parole e ai suoi silenzi. Un plauso va anche al trucco e parrucco di Lorenzo Tamburini (David di Donatello per Dogman) per aver reso così fedelmente le sembianze del pittore. Da questo film il ritratto che ci viene restituito è quello di un uomo buono, fragile, tremendamente sensibile, solo e solitario ma anche sicurissimo della propria arte e del proprio valore. Chiudiamo quindi con la frase attribuita all’artista che ha anche ispirato il titolo del film: “Volevo nascondermi… ero un uomo emarginato, un bambino solo, un matto da manicomio, ma volevo essere amato”.